OGGI HO CHIUSO GLI OCCHI E MI SONO RICORDATA CHI ERO

 

I giorni che precedono l’otto marzo sono sempre caotici. E’ questo il momento dei consuntivi; tragici, nel caso dei numeri abnormi e intollerabili del femminicidio e convulsi per l’organizzazione, i progetti e le rivendicazioni. Un flusso di coscienza rimesta i ricordi e le aspettative; questo strumento proustiano è come un filo carico di perle preziose, inanellate una dopo l’altra, bianche e nere, gioiose e deludenti.

Una di queste perle è un pensiero sottile, forse futile, mai pienamente chiaro; è composto da immagini in movimento, da mani che incrociano il mio cammino. Ho visto le mani delle donne tessere infiniti sogni, muoversi sinuose in un labirinto di forme e azioni. Quelle mani hanno creato la storia di tutti i giorni, hanno costruito il futuro, hanno lavato, cucinato, hanno redatto pagine di libri, hanno operato pazienti malati, hanno scritto numeri su fogli rigati. Quelle mani stanche che mai si fermano, che fremono nell’esercizio delle loro mansioni, ripercorrono il tempo delle azioni e delle guarigioni.

Ci fu un momento in cui quelle mani scandivano il ritmo del tamburo e impugnavano un osso scavato per soffiarvi l’ocra rossa che c’era dentro. Quel tempo è stato riscoperto dall’archeologo Dean Snow, docente della Pennsylvania State University, che ha analizzato le contro-impronte di mano lasciate sulle pareti di otto grotte francesi e spagnole: confrontando le lunghezze di alcune dita, Snow ha potuto stabilire che tre quarti delle impronte sono state lasciate da mani femminili. Altri studiosi si sono opposti a questa tesi e ne hanno elaborata un’altra, secondo cui le impronte lasciate nelle caverne paleolitiche europee, appartengono ad adolescenti in fase di iniziazione; gli stessi avrebbero lasciato un segno delle loro pulsioni sessuali disegnando vulve e figure immaginarie a metà tra l’umano e l’animale. E’ bizzarro come, pur di negare il ruolo della donna nelle storia, ci si avviti in considerazioni bislacche e fantasiose, lontane dalla logica e prive di senso.

Quelle mani femminili appartenevano, si presume, a sciamane che disegnavano le pareti delle grotte in momenti ritualistici specifici, per immortalare l’eterna (!) unione della natura con gli esseri umani. E’ probabile, dunque, che l’arte rupestre si ispirasse ai riti di iniziazione ed è possibile che gli artisti che hanno dipinto quelle grotte fossero donne, coloro cioè che rappresentavano la potenza creatrice, la dea terrestre delle nascite, la signora degli animali, colei che ‘rappresenta’ la Natura.

Quindi ho chiuso gli occhi e mi sono ricordata chi ero: la figlia, la nipote di quelle sciamane. La rivendicazione della parità di genere fa rifiorire, attraverso l’azione, un diritto che avevamo già e che abbiamo dimenticato. Così come gli antropologi citati sopra rifiutano la possibilità che anche le donne potessero avere l’impegnativo e responsabile ruolo di guaritrici, oggi si rifiuta, ancora, il concetto di parità.

Siamo lontanissimi dalla realizzazione di un mondo in cui i due generi affrontino, con gli stessi diritti, gli impegni giornalieri. In occidente le donne lavorano di più e sono pagate di meno. Vivono giornalmente discriminazioni e avances, dovendo fare lo slalom fra occhiate furbe o voluttuose e capacità non apprezzate; dovendo scegliere fra lavoro e continue umiliazioni. In oriente, in Africa o in India, la vita è più difficile per le donne: già bambine, costrette a matrimoni regolati dalle famiglie o deprivate per sempre della propria femminilità attraverso l’infibulazione. Oppure pronte ( e come potrebbero fare altrimenti?) ad imbracciare un’arma per difendere se stesse e la propria libertà, a discapito della loro stessa natura. Stupri, uccisioni, schiavitù, commercio dei corpi per appagare la bramosia animalesca di orchi sanguinari.

Le donne, sempre sulle donne si piange il sangue degli uomini e sempre le donne trovano la forza di lottare perché il mondo cambi. Come le madri e le nonne di Plaza de Mayo, mai stanche di chiedere la verità, mai impaurite di fronte all’autorità che nega l’ovvio: la ricongiunzione delle madri con i figli, delle nonne con i nipoti ormai orfani. Oppure le donne di Bhopal che chiedono ragione di un disastro naturale, sociale e ambientale, fomentato dalla bramosia del denaro. E ancora le donne indiane che abbracciano gli alberi  per salvare le foreste dalla desertificazione, lottando contro multinazionali che fagocitano le risorse, la madre  terra, il nostro futuro, la vita dei loro figli. E quelle donne, incaute, come Vandana Shiva che osa presentare ricerche contro lo sfruttamento ambientale della Monsanto e delle colture geneticamente modificate. E tutte quelle donne che hanno affollato i manicomi di tutto il mondo, definite isteriche perché fiere e pazze perché orgogliose di essere libere.

A tutte loro dobbiamo guardare, con loro ricordare chi siamo e cosa sappiamo fare.

Oggi ho chiuso gli occhi e mi sono ricordata chi sono.

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