Da Katal Huyuk all’arte minoica
Api, farfalle, uccelli, polpi, pesci, delfini, scimmie, cervi, tori, gatti, serpenti, ghirlande, spighe, elementi decorativi naturali, gigli, fiori di loto, scene di danze e giochi, colori vividi.
Imbattersi nell’arte cretese-minoica, risveglia il desiderio di fondersi con l’universo per riscoprire una Natura che si svela per quello che è: parte della nostra vita, momento per momento. Non è decorazione, belletto, impianto scenico. I vasi, le statuette della Grande Madre con i serpenti in mano e il gatto sulla testa, i sigilli con le spirali, gli affreschi che trasmettono gioia di vivere e i colori vivaci. Tutto fa parte di un’opera complessiva che permea, come in una simbiosi, la società cretese nelle diverse epoche.
Non intendo avventurarmi in una critica dell’arte di questa civiltà, non ne ho la competenza. Però vorrei trasmettere lo stupore che generano in me quelle immagini. Oltretutto, per essere precisi, si dovrebbe procedere ad una differenziazione delle epoche che si sono susseguite a Creta, con tanto di classificazione archeologica, come quella fatta da Evans o da Platon; ma il mio non vuole essere un discorso storico- accademico, piuttosto una visione, un sentimento, una fortunata sensazione. Dunque, fugato il rischio che mi si prenda troppo sul serio, procederei con il discorso che avevo iniziato.
Nella stessa epoca l’arte egizia, da cui sicuramente i cretesi appresero le tecniche, rappresentava con solennità le figure di personaggi importanti, fotografati in attimi di superba austerità. Le figure del palazzo di Cnosso, invece, sembrano fluire in attimi che si susseguono come in un film; immagini in movimento di una storia semplice e quotidiana, espressione della gioia di appartenere a tutta quella bellezza rappresentata.
Quell’arte ride gioiosa nel mostrarci i momenti ludici e sorride sorniona quando inscena un rituale religioso.
Le figure sono sempre accompagnate da immagini della Natura; elementi che potrebbero sembrare decorativi a prima vista ma, guardati nel complesso dell’arte rappresentativa cretese, sono essi stessi soggetti, non semplici decorazioni che accompagnano le figure umane; fanno parte della quotidianità di uomini e donne che danzano, giocano, saltano sui tori con spettacolari acrobazie. Sono lì per partecipare, non per decorare!
Mi piace definire tutto questo arte partecipata, dove oggetto e soggetto si fondono in una immagine di gaia bellezza.
Quelle immagini entrano nel cuore, alleggeriscono il peso dell’esistenza, donano allegria e riappacificano con la Natura.
Vi chiederete perché insisto nel descrivere queste visioni; perché continuo bellamente a saltare indietro nel tempo?!?
La risposta risiede in una domanda: da dove viene quel mondo che Creta rappresenta?
Da dove quel sentimento della storia, quell’affresco della vita che appare come equilibrio fra le creature del mondo e che non fa parte della storia che conosciamo? In effetti tutto questo arriva da lontano, da molto lontano.
Prefiguriamoci la famosa linea del tempo che i bambini studiano alle scuole elementari. Una linea che va a ritroso, fino agli albori della storia o ancora più indietro, quando la storia non esisteva e il tempo era cadenzato dalle fasi della luna.
Devo necessariamente aprire una parentesi e fiondarvi, improvvisamente e senza avvertimento, in un’epoca a noi vicina. Conosciamo bene quell’epoca, è la nostra; vi catapulto, infatti, nel Novecento, più o meno negli anni settanta e ottanta di quel secolo infausto.
In quegli anni, una preparatissima archeologa lituana, trasferitasi negli Stati Uniti già nella seconda metà degli anni quaranta, elaborò una teoria particolarmente affascinate sulle civiltà dell’antica Europa. I suoi studi si riferiscono ad un periodo pre-storico ( per lo più antico neolitico) che, in alcune parti del nostro continente, risale al 6400 a.C.. Ma sottolinea anche che le radici di quella civiltà, risalgono addirittura al periodo Paleolitico.
La studiosa in questione si chiamava Marija Gimbutas e per avere più agio nel dimostrare le sue tesi, pensò di studiare, parallelamente al lavoro di scavo portato avanti in moltissime zone dell’Europa, anche la linguistica, la mitologia comparata, il folklore e l’etnografia. Il suo approccio allo studio dell’archeologia, segna un’evoluzione di metodo con l’introduzione della ricerca interdisciplinare.
Cosa dimostra, dunque, la Gimbutas con un lavoro minuzioso e con una quantità copiosissima di reperti rinvenuti in tutta Europa? Dimostra che anticamente esisteva una civiltà che aveva come riferimento divino una Grande Dea, datrice di vita, morte e rinascita. Una Dea che incarnava la Natura, che induceva a rispettare i cicli dell’esistenza, che non imponeva bensì insegnava. Attraverso il rispetto dei cicli naturali e l’identificazione della donna come portatrice di vita e creatrice di realtà nonché connessa alle forze della luna attraverso il ciclo mestruale, poco a poco, si creò una civiltà che si espanse in tutta Europa, da est a ovest, da sud a nord.
Fine della parentesi storico-archeologica (solo per ora! Affronteremo presto, ancora e ancora, il meraviglioso mondo della Gimbutas) e continuazione delle considerazioni sulla civiltà cretese e sulla sua origine.
Con molta probabilità il popolo cretese e di Thera (attuale Santorini) giunse nelle isole di quell’arcipelago dall’Anatolia, luogo in cui si era sviluppata una società avanzata, già in epoca remota.
Chiudendo gli occhi, immagino, sorridente, lo stupore provato da James Mellaart, archeologo che si occupò degli scavi in Anatolia negli anni sessanta, quando si rese conto che sotto i suoi piedi di studioso, si stratificava una storia mai immaginata, una storia animata che rifletteva la vita di una popolazione agricola antichissima. I tredici livelli di abitazioni, cortili, piccoli templi, forni, statuette, monili aurei, murales, dispense, raccontavano di un popolo che abitava quell’area già nel VII millennio a.C..
Ohibò, una società neolitica avanzata nel cuore del Mediterraneo!
Sì, era Katal Huyuk, affascinante città che si caratterizzò come pozzo inesauribile di reperti che la posero sul podio come città più grande del primo neolitico.
Ma la sua storia penetra ancora più in profondità, nel Paleolitico. Ulteriori stratificazioni, infatti, attestano una continuità culturale e spirituale fra gli strati antichissimi e quelli del settimo Millennio. I tremila anni precedenti, avevano preparato il terreno per la definitiva esplosione culturale di questa civiltà, avevano depositato l’humus che sarebbe sbocciato nelle forme e nei modi gentili della cultura senza armi e senza guerra di Katal Huyuk.
Dall’Anatolia quelle stesse donne e quegli stessi uomini con il loro prezioso bagaglio di sapienza, si incamminarono verso Ovest; prima fondarono un’altra città, Hacilar, poi dopo qualche millennio, salirono a bordo delle loro barche e navigarono ancora più a Ovest. Lì trovarono un’isola, Creta, poi un’altra, Thera e vi abitarono accrescendo la loro sapienza, forse ricostruendo quelle case basse con i tetti che fungevano da strade come avevano fatto prima di partire da est. E lì stettero, organizzando, poco a poco, la vita attorno alle loro credenze, fatte di danze in circolo e di gratitudine verso la Natura. Quella Natura era la Dea che comprendeva i cicli delle stagioni, la forza della Luna, il rispetto per gli esseri viventi, la rigenerazione come approdo dopo la morte; quella Dea che riprende e incarna la spirale dell’esistenza, vita-morte-vita come ciclo infinito di cui l’uomo è parte integrante, simbolicamente eclettica e onnicomprensiva. Quindi non solo Dea della fertilità o della riproduzione, Venere incompleta, come è stato affermato anche da dotti archeologi, bensì inizio di ogni cosa, ispiratrice di vita; terrificante nella maschera della morte, umida come il liquido amniotico, nelle sembianze del pesce o della rana che offrono la via della rigenerazione.
Creta e Thera sono il parto naturale della cultura della Grande Dea europea, l’ultimo, splendido, abbagliante fuoco sacro della cultura dell’unica Dea. Estremo baluardo di resistenza di quel popolo che aveva basato il corso della vita sull’amore piuttosto che sull’odio e la paura. Bisognerebbe ripartireda questo, dal capiente e benefico grembo della divinità femminile che germoglia vita, si abbarbica come edera nell’asse della storia e ripercorre l’antico nel presente.
Foto di copertina di Barbara Mileto – Henriette
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